Maria Paola Masala
Sguardi di donna in mostra alla Rinascente

Dal profilo pensoso della piccola Marta alle espressioni più intense delle modelle più mature, il percorso di Maria Caboni attraverso gli sguardi femminili è una continua ricerca dell'equilibrio e dell'armonia. Le donne che il suo obiettivo ha colto negli ultimi dieci anni, e che la mostra fotografica allestita al secondo piano della Rinascente propone sino a stasera, in un gioco di specchi fatto di riconoscimenti e distanze, sono perfettamente a loro agio, tra i vestiti del reparto, e nello stesso tempo ne sono lontanissime; sobrie, essenziali, bastanti a sé stesse.
È la prima mostra fotografica della giovane artista cagliaritana che coltiva da anni due interessi paralleli, quello per fotografia, che l'ha portata a frequentare l'Istituto Europeo di Design, e quello per la pittura, che da quasi un decennio (da quando frequenta lo studio di Rosanna Rossi) rappresenta il fulcro della sua ricerca.

 

Maria Caboni
In ricordo di Joyce

Da Joyce ho avuto tante risposte e l’esempio di cosa voglia dire lottare.
La sua bella idea di Utopia; l’incoraggiamento a vivere il privilegio ricevuto, come qualcosa di positivo e di utile anche per altri: “Tutti dovrebbero stare bene!”; ma anche l’importanza dell’estetica, della cura della persona, delle proprie abitazioni, seppur provvisorie, come rispetto per sé stessi, ma anche degli altri, come elementi utili al miglioramento della qualità della vita. In questo senso anche la camicetta di un bel colore chiaro, le sue larghe e comode gonne, magari trovate in un mercatino dell’usato, o delle scarpe verdi e dei suoi pettinini viola, o trasparenti, indimenticabili, valevano più di qualsiasi abbiglio da “ricca signora”.
Aveva un’eleganza innata.
Riluceva nella sua bellezza, nell’ironia e nell’intelligenza di donna forte, eccessiva, ma anche sensibile e profonda.

Joyce Lussu e Luana Trapè
Da “Sulla civetteria”

Joyce - Riassumiamo per prima cosa tutto quello che la civetteria non è.
Non è disordine, sciatteria; è impossibile coniugarla con la violenza e la crudeltà; non tende al potere politico, non si esercita per avere soldi o fare traffico d’armi. Chi prova il gusto della civetteria non può mai essere completamente disumanizzato, perché vuol dire che ama sé stesso e quindi ama anche i suoi simili; uno ha fiducia in sé, si è simpatico, e questa simpatia la estende agli altri esseri umani, almeno a buona parte.
La civetteria è una capacità ludica che fa parte della nostra natura umana e che ci dà momenti di allegria, che sono molto importanti, di grazia, di garbo, nell’aspetto, nei movimenti, in come agghindiamo il nostro corpo, anche nella pura ricerca estetica.
Dovremmo coltivare la capacità di essere contenti, per cui la vita ci piace, ci piace avere questo corpo, queste mani, questo cervello, essere presenti in mezzo agli altri che sono come noi, ma leggermente diversi. La civetteria è qualcosa di assolutamente gradevole all’occhio, al tatto, a tutti i sensi, perché un’immagine armoniosa ha nel cervello un impatto astratto, ma molto forte.
Essa coinvolge uomini e donne in egual misura e con la stessa prospettiva; ti dà un senso di agio, di rilassamento, ti distende, ti regala serenità. La civetteria non è frutto della paura, ma della pace e del senso di armonia con il mondo circostante; inoltre, quando è completa, vera, non vuole togliere nulla, ma bensì aggiungere civiltà. Questa è l’essenza della civetteria; poi ci sono le deformazioni, i degradi.
Cerchiamo invece di mettere in luce quelle forme che sembrano inutili, come quella di cambiarsi la sera per mettersi a tavola, adornarsi, trattare cortesemente gli altri; sembrano formule superficiali, ma in realtà non lo sono, perché se si è capaci di perdere un po’ di tempo e di pensiero per creare questi piccoli contesti, si vive meglio e non si ha quel senso di precarietà, di inutilità, delle cose, della vita.
Quello che ammiravo molto nel mio compagno era che lui non aveva un linguaggio diverso quando stava in casa con noi da quando stava fuori: stava con me come sarebbe stato con un ospite gradito a cui dava accoglienza e ospitalità. Mentre sappiamo tutti come si comporta la gente molto spesso: entra a casa e mentre prima era tutto ossequi e gentilezza, quando rivolge la parola alla moglie, si trasforma. Perché? Bisogna usare anche per i familiari lo stesso abito e gli stessi modi che useresti con degli invitati; questa è una disciplina che rende la vita più gradevole e dà la possibilità di controllare meglio se stessi. Se hai questa abitudine, non sentirai il bisogno di alzare la voce o di parlare in maniera rozza.
La civetteria “rivalutata” si potrebbe allora definire come “la veste festosa e gradevole della simpatia per il proprio simile”, un modo per esprimere l’ordine, che diventa un ordine mentale. Questa è la civetteria intesa nel senso migliore; è una forma di disciplina, di sforzo che si fa per dedicare una parte delle proprie energie all’essere gradevole, un gusto che si ha per se stesso o per catturare l’attenzione dell’altro, per avere fascino.
(…)
Noi esseri umani abbiamo un grande problema, che è la convivenza. I cinesi della Rivoluzione culturale, dicevano che la storia ha solo due aspetti: la sopravvivenza e la convivenza: la prima è un lavoro che facciamo per procacciarci da mangiare, per avere i beni per vivere. La convivenza, invece, va gestita con un certo equilibrio per far scorrere la giornata, creare i ritmi, i moduli con i quali muoversi per andare in mezzo agli altri.
Oggi non si insegna ai giovani come comportarsi quando si è in molti, senza essere sgradevoli agli altri; non gli si dice di non alzare la voce o di modularla, di avere una buona dizione per farsi intendere e non esplodere in urla, di non parlare in maniera poco chiara. La vita sarebbe facilitata, se insegnassimo loro alcuni comportamenti che poi più tardi vengono descritti come civetteria.
Infine c’è da dire che la civetteria, attraverso i millenni di maschilismo trionfante, in maniera tenue ma profonda, contesta la separatezza artificiale imposta tra l’uomo, forte e coraggioso, che si assume il ruolo della guerra e la donna, serva e domestica, che fa i figli e li accudisce.
(…)
Tutta la biologia moderna riconosce che l’uomo e la donna sono molto simili e ambedue possiedono quegli elementi che sono detti abbastanza arbitrariamente maschili e femminili: infatti non si capisce perché la tenerezza e la gentilezza debbano essere un attributo della donna, mentre il decisionismo e la forza attributo dei maschi.
Non è così, ogni essere umano ha in sé questi elementi, che non debbono essere separati dando luogo a ruoli diversi e contrapposti, bensì riconosciuti come alleati e complementari. (…) Io credo che anche l’omosessualità sia un incontro tra due esseri in cui c’è, in uno forse una piccola prevalenza dell’elemento detto femminile e in un altro di quello detto maschile.
(…)
Già vediamo che nelle giovani coppie maschi e femmine vanno a lavorare e accudiscono la casa e i bambini, senza nessuna differenza: tutto dipende dalla situazione del lavoro, dalla praticità della vita; non c’è più né da parte della donna un rifiuto dell’assunzione di responsabilità o di capacità decisionali, né da parte dell’uomo un rifiuto totale delle attività domestiche. (…) Questo crea un’armonia all’interno della famiglia che poi, estesa, può diventare armonia all’interno della società.
Sono certa che prevarranno le forme pacifiche di convivenza quotidiana che si intravedono già nelle responsabilità di governo di Nelson Mandela e nelle proposte ecologiche e sociali di Vandana Shiva.

Luana – Perché concludi questa chiacchierata con due nomi come Mandela e Shiva?

Joyce - Perché questi due personaggi mi sembrano emblematici di un nuovo modo di usare l’intelligenza e la coscienza e di queste virtù li considero le punte più avanzate. Si contrappongono come bussola e punto di riferimento a personaggi del passato, quali l’eroe in Occidente e il santone in Oriente; i quali tendevano ad emergere al di sopra della folla, mentre questi moderni indicatori di strade da percorrere, non emergono al di sopra degli altri ma si immergono nelle folle, socializzando le loro conoscenze e indicando strade che tutti possono percorrere.
Il termine civetteria può far parte della loro cultura. Non alludo al fatto che oggi, essendo famosi in tutto il mondo, qualsiasi stilista sarebbe felice di offrire loro un abito bellissimo. Mi riferisco ai momenti più difficili della loro vita, per esempio quando Vandana Shiva, abbandonate le aule lussuose e i ricchi laboratori dell’università dell’ONU e, avendo scoperto che l’uso che si poteva fare della sua scienza era costruire spaventosi ordigni di guerra, si è mescolata ai contadini più poveri, alle donne che abbracciavano i tronchi dei loro alberi affinché non li tagliassero, poiché solo quegli alberi consentivano di mangiare un frutto o di costruirsi una capanna. Mi riferisco ai 27 anni di carcere trascorsi da Nelson Mandela in un carcere razzista, che ci ha descritto analizzando i comportamenti che gli hanno consentito la sopravvivenza. Anche se il solo lavoro che gli hanno consentito in carcere era quello di pulire i cessi, si sforzava di farlo col massimo dell’attenzione e della perfezione, ricevendo qualche parola di riconoscimento persino dai suoi carcerieri e riuscendo infine a ottenere di poter usare la lavanderia per lavare e stirare le sue camicie. Così il suo aspetto era sempre pulito e ordinato. Nei militanti delle lotte anticoloniali, antirazziste, antinaziste, ho notato sempre grande cura del loro aspetto che fosse ordinato e pulito, come segno esteriore dell’ordine e della pulizia delle loro coscienze.
Questo è certamente il significato più alto che si può dare alla civetteria.

da Sulla civetteria, cap. 18, “per finire”, Joyce Lussu e Luana Trapè, Voland, Roma 1998

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