Ivana Multinu

Ho conosciuto Maria che era poco più di una bambina e già la vita la emozionava intensamente.
Ogni esperienza, fugace o durevole che fosse, la turbava.
Niente le scivolava addosso con leggerezza. Tutto le si raccoglieva dentro, in un intimo processo di rielaborazione attraverso il quale cercava di costruire un’immagine del mondo e di sé.
Quando vidi la prima produzione ufficiale del suo lavoro, la rappresentazione di un fiore delicatissimo, un unico soggetto, ma sempre diverso nel suo aprirsi e raccogliersi, nei colori accesi o sfumati dei petali, pensai che niente meglio di quel fiore simboleggiava la giovinezza di Maria: colorata di sogni e speranze, sensibilissima ai fatti della vita, proprio come i minuscoli petali lo sono ai capricci del tempo.
Più tardi, erano trascorsi alcuni anni, visitando un’altra sua mostra, non vidi più traccia dei fiori.
Al loro posto, forme policrome rischiarate da fasci di luci, forme dai contorni più o meno definiti.
Alcune mi evocavano la durezza della pietra. Altre, al contrario, l’evanescenza del sogno. Dunque Maria era cresciuta. Cominciava a delineare con chiarezza due mondi: quello materiale e l’altro, spirituale, con un equilibrio di forme e colori. Ed ora?
Scrive Maria: “Nel Velo di Maya, le forme sono imbrigliate nella trama, assorbite dal bianco della tela, illusorie nel loro essere certe. Oltre, sta il mondo interiore mischiato, confuso o nitido, e le forme traspaiono dal foglio. Io le ricalco.
Sul bianco io mi appoggio. Respiro e sfumo, ma chiudo, anche, e annerisco”.
Ecco. La sua ricerca continua …

 

Donatella Davini

Pittura e Musica, “frammenti di un discorso amoroso”: rispecchiamenti divergenze, corteggiamenti fughe, scambievoli invidie tra le due arti del tempo e dello spazio, quasi un cercarsi delle due metà del dimidiato essere platonico.
Ora affiancate a gara nella competizione all’astrazione, fino agli estremi confini della tela integra e del silenzio.
Anelante talvolta la Pittura al flusso temporale della Musica, attraverso il trascolorare cromatico del suo oggetto.
Frustrata la Musica nell’aspirazione ad afferrare l’attimo, ad abbracciare il tutto e il frammento che fuggono nel tempo. Macrostrutture e microstrutture che l’analisi visiva della partitura musicale trafigge e immobilizza finalmente, ma solo come lugubre farfalla. Frequente schizofrenia del segno musicale e del suo esito sonoro.
A questo cercarsi senza fine delle due arti dello spazio e del tempo, della vista e dell’udito, vien fatto di pensare fissando quietamente i quadri di Maria Caboni.
Un fare pittorico che si dipana in uno stile “sobrio ed essenziale” ed in una dimensione dilatata del tempo, e in più sensi: intanto come risposta esistenziale “al caos emotivo, spesso avvertito, come specchio di una vita mondiale nutrita di squilibri …” ed ancora “dipingere con lentezza ed oculatezza … con piccoli spostamenti …”
E’ un rimeditare, decantare, declinare uno stesso spunto attraverso anni di percorso artistico, si tratti di “variazioni” sui ranuncoli d’esordio, presto “spiritualizzati”, o sulle sagome quadrangolari, triangolari, ora massicce e dense di colore come monoliti (ma possono anche fluttuare “spaesate” in un elemento indefinito, monocromo, come il tratto di matita che le delinea e le incide), ora ridotte alla proporzione di gemma, scheggia, ora sciolte in morbide impronte nella pittura su seta.

In “Certezze”, approdo (sempre momentaneo) di una rimeditazione, macrostrutture e microstrutture sembrano finalmente placare le tensioni frustrate di Pittura e Musica. Lo sguardo fissa e abbraccia con immediatezza il “tutto”, una forma quadrangolare, e nel contempo si proietta in una dimensione temporale percorrendo indefinitamente le variazioni minime di forma e colore delle schegge che si aggregano nella macrostruttura.
Un procedimento che sarebbe piaciuto a Bach e Brahms, Schönberg e Webern che di “Variazioni” se ne intendevano.

Lilia Daneluzzi

Un inno alla matita, in una sinfonia di toni dalle differenze appena percepibili, se lette in scala come l’artista, con elegante provocazione, le disponeva sul foglio a forzare il lettore nel sottile esercizio percettivo: 6H, 2B, titoli enigmatici che conducono invece con precisione nel domaine della graffite. Un vero lusso che l’artista si concede, così come la scelta del soggetto, una infinità di sassi, pietre, perle, che con la loro forma e l’esercizio di bravura che li disegnava, riempivano fogli e fogli. Piccolissimi o enormi, tutti ugualmente e compostamente allineati in un dialogo intimo con l’artista che intitolava le sue opere: pensieri, pensieri ordinati o disordinati, ecc. dandogli in qualche modo una valenza letteraria, quasi un diario in chiave grafica.
Nell’insieme una mostra coraggiosa, senza compromessi o leziosità, tutta giocata nel rigore dell’esecuzione. Molto belli anche gli acquerelli dove le pennellate disegnavano le pietre creando composizioni dal sapore raffinatamente klimtiano.


Enzo Di Martino

Disegni ed acquerelli ossessivamente dedicati ad una "forma" indistinta che diventa così, per certi versi simbolica, una sorta di "pietra filosofale" dalla quale scaturiscono riflessioni ed emozioni. Maria Caboni (Cagliari 1969) realizza innumerevoli varianti di quella forma, utilizzando nei disegni matite di diversa durezza, quasi a volerne disvelare ogni possibilità percettiva e formale.

Mostra numero tre